Mio padre era originario di Marsala, la città dei Mille, lembo estremo della Sicilia occidentale. E quando all’epoca in cui ero bambino andavamo in vacanza lì dov’era nato, le tre settimane di ferie erano un unico interminabile invito a pranzo e a cena da parte di parenti e amici. Che erano numerosissimi, e decisi a gareggiare nel mostrarsi quanto mai ospitali, cosa che si traduceva in pranzi e cene colossali. Tutti avevano del resto ancora memoria della guerra, e dunque della fame e della famosa tessera del pane. Per cui noi non facevamo in tempo ad alzarci dalla tavola del pranzo che dovevamo correre a quella della cena. Si trattava di tavole riccamente imbandite perfino se l’amico o il parente di turno era tutt’altro che benestante: per l’occasione si facevano senza se e senza ma i sacrifici necessari a soddisfare ogni possibile desiderio di questi ospiti giunti in Sicilia dal Nord, compresi i desideri che nessuno di noi sapeva di avere. Mio padre non era una grande forchetta. Io nemmeno. Mia sorella neppure. Toccava dunque a mia madre tenere testa ai ripetuti inviti a mangiare: “Mangia, sangu meu, mangia” era il mantra che caratterizzava ogni pasto, e ogni pasto comprendeva almeno due o tre primi, due o tre secondi, due o tre contorni e due o tre dolci. Lo stoicismo di mia madre era ammirevole. Mio padre cercava di giustificare il tutto spiegandole che i marsalesi non mangiano per vivere, vivono per mangiare. Ogni estate, quando torno in Sicilia a Marsala, ripenso a quei momenti. E non posso non riflettere ogni volta sul fatto che l’acqua minerale più diffusa a Marsala si chiama Mangiatorella.